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La settimana lavorativa di quattro giorni è possibile?

Immaginate per un instante di dover lavorare soltanto quattro giorni alla settimana, di arrivare al giovedì sera, salutare i colleghi e fiondarvi verso un weekend lungo, a quel punto, ben 72 ore. Non è un sogno, e nemmeno utopia, ma un esperimento sociale che ha coinvolto lavoratori di diversi Paesi con risultati estremamente incoraggianti.

Il caso Islanda

L’Islanda è uno di questi. All’inizio di luglio, sono stati pubblicati i risultati di uno studio condotto tra il 2015 e il 2019 su un campione rappresentativo di 2500 lavoratori del settore pubblico, circa l’1% della popolazione complessiva, i quali, a parità di salario, hanno visto diminuire il loro monte ore settimanale, passato da 40 a 36 ore, in alcuni casi anche 35. L’esperimento ha riscosso un successo travolgente, facendo registrare un aumento della produttività accompagnato da un miglioramento delle condizioni psicofisiche dei dipendenti. Tanto è vero che iniziative del genere stanno prendendo piede sempre più di frequente un po’ in tutto il mondo, nel settore pubblico così come nei contesti aziendali. In Spagna, ad esempio, dove il governo centrale ha stanziato 50 milioni di euro per verificare la fattibilità della proposta. In Nuova Zelanda, presso la multinazionale anglo-olandese Unilever o, ancora, in Giappone, nella sede Microsoft sita a Tokyo.

I possibili benefici della settimana corta

La settimana lavorativa ridotta sta attirando su di sé le attenzioni di studiosi ed economisti, incuriositi dai benefici che potrebbero derivare dall’adozione di un simile modello. Lavorare un giorno in meno, difatti, aiuterebbe a contrastare la fatica, renderebbe più felici, motivati e, di conseguenza, più produttivi. Favorirebbe altresì il riequilibrio tra lavoro e vita privata, spesso sbilanciato sul primo, e la parità di genere, grazie a una più equa ripartizione dei compiti domestici. Migliorerebbe, insomma, la qualità della vita. Ma i vantaggi riguarderebbero anche altri aspetti, di certo non secondari, come il notevole calo dei costi di gestione gravanti sugli uffici e, ovviamente, la questione ambientale. Minori consumi di energia nei posti di lavoro e minori spostamenti dettati da motivi professionali si tradurrebbero, nel lungo periodo, in una significativa riduzione delle emissioni di gas serra. Se ciò non fosse abbastanza, poi, potrebbero sempre venire in soccorso le parole pronunciate da Giovanni Agnelli che, parlando di rimedi contro la piaga della disoccupazione, scriveva “lavorare meno, lavorare tutti”.

Una questione di qualità più che di quantità

Non manca comunque chi tende a storcere il naso, sostenendo che l’introduzione della settimana lavorativa corta non sarebbe possibile in tutte le realtà aziendali ma, per contro, solamente nei contesti più grandi, più strutturati e dotati di ampia flessibilità. Timori al riguardo concernono anche il possibile effetto discriminatorio ricadente su alcune categorie di lavoratori, impossibilitati a svolgere le mansioni in minor tempo e per le quali è prevista necessariamente la presenza fisica, come ad esempi nei settori assistenziali e ospedalieri. Tema questo legato a doppio filo alla questione occupazionale. C’è chi poi, in conclusione, non perde l’occasione per sottolineare un aspetto importante, invitando le parti interessate a soffermarsi maggiormente sul tema della qualità del lavoro piuttosto che su quello della quantità effettiva.

Fonti:

Francesco Di Raimondo